Lavoro e Beni Comuni


Lavoro e beni comuni

Per proporre e praticare alternative alle politiche di austerità salariale e di rigore fiscale, di deregolamentazione del mercato del lavoro, di smantellamento della previdenza e dei servizi sociali − cardini della strategia dei governi nella gestione della crisi del capitalismo globalizzato − sono attivi in tutta Europa movimenti sindacali e sociali.
In Italia il sindacalismo militante ha posto le questioni della precarietà e della precarizzazione dell’insieme dei rapporti di lavoro, della lotta contro la compressione dei salari e degli stipendi, e della difesa del contratto nazionale contro le deroghe aziendali in pejus (legalizzate con l’art.8 del decreto legge 138/2011 tramite la cosiddetta contrattazione collettiva di prossimità). La FIOM e l’USB, con proposte di legge di iniziativa popolare, hanno di fatto già risposto all’accordo del 28 giugno tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL  perché con esse chiedono una rappresentanza non nominata dai sindacati ma democraticamente eletta da tutti i lavoratori, ai quali dovrebbe spettare tramite assemblee e referendum il potere decisionale ultimo sulle piattaforme e sugli accordi. Così si verrebbe a stabilire che il soggetto dell’autonomia collettiva sono i lavoratori e non il sindacato.
I movimenti sociali − in concreto le coalizioni di gruppi e organismi territoriali, di associazioni, sindacati e chiese, oltre che di singole persone − ruotano intorno all’acqua e all’energia come beni comuni (principi affermatisi a livello popolare nei referendum del 12 e 13 giugno), al ‘no alle opere inutili’ e al  ‘no agli inceneritori per zero rifiuti’ per la salvaguardia del territorio e la preservazione della natura. Dalla Val di Susa al Ponte di Messina si dispiegano le coalizioni per contrastare la devastazione e il consumo del territorio con cemento e asfalto.
Studenti e precari hanno respinto le riforme Gelmini volte a trasformare la scuola e l’università in aziende funzionali alle esigenze delle imprese, sono mobilitati per conquistare il reddito minimo garantito e per affermare l’educazione, la conoscenza e la cultura come beni comuni immateriali,  temi ripresi nelle lotte del Teatro Valle di Roma.
Le mobilitazioni dei e sui territori sono pratiche di democrazia essendo le decisioni frutto della partecipazione diretta dei cittadini che pervengono, di solito, a scelte condivise dopo un processo deliberativo capace di operare tra di loro influenze reciproche e adattamenti delle proprie ‘preferenze’.
Le donne, con ‘Se non ora quando’, hanno preso dritto di mira il patriarca e il capo, grottescamente rappresentato da Berlusconi ma espressioni diffuse di una società che fa del potere, del denaro, del glamour i propri valori mercificando corpi e relazioni fra le persone. Il movimento delle donne, contestando la figura del capo, del leader carismatico, denuncia il capovolgimento dello slogan ‘personale è politico’: questo spronava alla pratica da parte di tutte/i della ‘democrazia del quotidiano’; il leaderismo rende politico solo ciò che fa il capo, essendo lui solo l’interprete  e l’espressione dei sentimenti, bisogni e desideri del popolo.

2.
Ormai diffusa è la convinzione che per contrastare la mercificazione delle persone e della natura occorra orientare le scelte politiche, sociali ed economiche secondo i valori dei beni comuni. Questa convinzione, che tiene uniti differenti movimenti, è accompagnata da uno sforzo di riflessione di elevato livello culturale per darle un quadro di riferimento teorico. Delinearlo però è arduo perché richiede conoscenze delle esperienze pratiche e in varie discipline, di sicuro in quello dell’economia e del diritto. I miei richiami alle diverse concettualizzazione di ‘beni comuni’ vogliono solo essere di stimolo a ulteriori sforzi di chiarificazione.
Di certo da evitare, a mio avviso, è l’impostazione che, trovando inutile o forse ritenendo impossibile giungere a una sua definizione univoca, sostiene che è ‘bene comune’ tutto ciò che una comunità giudica tale. Questo porta a esiti totalizzanti, in quanto distrugge la democrazia costituzionale basata sulla ‘grande divisione’ tra ‘sfera del decidibile’ e ‘sfera dell’indecidibile’ (Luigi Ferrajoli). Se, come in generale si sostiene, i beni comuni sono oggetto dei diritti fondamentali delle persone, allora essi sono indisponibili a qualsiasi decisione, sia del mercato sia della maggioranza politica per evitare la loro manomissione cioè l’uso o la gestione privata. Per questo i beni comuni hanno bisogno di uno statuto speciale, ancora da conquistare.
D’altra parte, ritenere che qualsiasi entità  − naturale sociale o personale, per esempio il lavoro − possa essere definita ‘bene comune’, porta a esiti paradossali. Si intenda, per l’appunto, il lavoro come ‘bene comune’. Essendo uno dei tratti distintivi delle res communes la possibilità di ciascuno di farne uso, se il lavoro fosse ‘bene comune' si giungerebbe al risultato che il lavoro di una qualsiasi persona potrebbe essere usato da tutte le altre,  perché ritenuto utile al perseguimento di interessi stabiliti come superiori  dalla maggioranza: si arriverebbe a una società di schiavi, in nome del lavoro ‘bene comune’. Il lavoro non è un bene comune, è energia e attività fisico-mentali, il fare di ogni essere umano nella sua individualità: è, secondo l’art. 1 della Costituzione, l’attributo imprescindibile di chi appartiene alla comunità, ed è da considerare «quale fondamentale diritto di libertà della persona umana»(come si espresse la Corte Costituzionale nella sentenza 45 del 1965). Adattando la nomenclatura proposta da Ferrajoli, lo si può definire ‘bene personalissimo’ e per questo è posto a fondamento della nostra Repubblica, ed è specificamente tutelato in quanto diritto sociale fondamentale (artt. 4 e 35-38 della Costituzione)1. È stato il capitalismo a provocare la scissione dell’essere umano in lavoratore e in forza-lavoro: al primo ha attribuito alcune qualità proprie della persona, facendone un soggetto di diritto, capace di stipulare per sua volontà contratti; la seconda è una merce, oggetto di libera compravendita sul  mercato secondo le regole di diritto comune.
Dietro l’autodeterminazione negoziale, sta la soggezione economica e gerarchica del lavoratore al potere dell’imprenditore e, per limitare questo potere, si sono statuiti diritti proprio al fine di depotenziare lo schema civilistico: il lavoratore, titolare di diritti patrimoniali, diviene soggetto anche di diritti costituzionali. Di contro alla scissione provocata dal capitalismo, il movimento operaio, forte delle conquiste sancite dal costituzionalismo del Secondo dopoguerra, mira a configurare il lavoro come una «manifestazione della persona, al pari del pensiero e della parola», per cancellare il suo carattere di merce e conferire dignità e libertà a chi lavora2.
3.
Ci troviamo in una situazione davvero strana, abbiamo un’espressione ‘beni comuni’ – a volte detti con nome inglese ‘commons’– e la sua estensione, cioè i suoi referenti, i cui confini sono però incerti, perché le sue connotazioni, il cui insieme ne costituisce il concetto, non sono chiaramente definite. Abbiamo espressione e referenti – acqua, aria, energia, terra… −, ma non il  preciso significato. A causa di questa carenza concettuale si incappa in paradossi, come quello relativo al ‘lavoro’. Questa esigenza di chiarezza non è ricerca di purezza intellettuale. Una corretta concettualizzazione è il presupposto  per individuare il percorso perché lo ‘stato di cose presenti’, la realtà storico- sociale, corrisponda a ciò che si intende quando si usa il nome ‘commons’, o l’espressione ‘beni comuni’. Hanna Pitkin ha rilevato questo legame tra concettualizzazione e progetto politico quando ha affermato che conquistare la ‘verità delle cose’ è il primo e necessario passo per compiere «lo sforzo per la loro emancipazione», in quanto il linguaggio e i concetti conformano e danno direzione all’attività umana3.
Per giungere a una definizione capace di catturare le complesse caratteristiche dei ‘beni comuni’, si è soliti far ricorso alla nozione romanistica di res omnium communes. Questa categoria non veniva utilizzata  da tutti i giuristi romani e − se pur ben definita in Elio Marciano che le individua nell’aria, nell’acqua corrente, nei mari e nei litorali − conosceva oscillazioni e incertezze, come rileva lo storico Giuseppe Grosso. La loro caratteristica saliente veniva colta nel non appartenere a nessuno singolarmente, essendo destinate all’uso di tutti. Tuttavia, precisa Grosso: «Tutti gli uomini hanno diritto ad usare di queste cose, respirare l’aria, navigare, attingere acqua, pescare, asciugare le reti sul lido, costruire piloni, case, capanne sul lido, ed anche costruire sul mare, purché non ne sia impedito e danneggiato l’uso comune». Dunque se «esse sono sottratte all’appropriazione nel loro complesso, non lo sono per parti distinte; ci si può appropriare di una porzione limitata di mare o di lido, per esempio costruendovi, con il limite dell’uso comune», con il limite cioè di non pregiudicare l’uso e l’appropriazione da parte degli altri. In conclusione: le ‘cose comuni’ erano poste extra commercium, per garantirne l’accesso a tutti, se ne consentiva però l’appropriazione parziale grazie all’illimitatezza delle risorse (relativamente alle dimensioni delle popolazioni dell’epoca). Un privato poteva così appropriarsi in maniera permanente di una ‘porzione’ di un bene comune, non dovendo però impedire che altri esercitassero la stessa facoltà di appropriazione, che rimaneva uno dei legittimi modi di accesso all’uso4. Tale caratteristica, di appropriazione privata di porzioni di beni comuni, non cattura uno dei significati che attribuiamo oggi a ‘beni comuni’, quello di essere non appropriabili singolarmente in modo che rimangano accessibili a tutti. Questo è un primo motivo che rende la nozione romanistica inadeguata alla concezione che i movimenti contemporanei hanno dei ‘beni comuni’.
Un secondo motivo è che la nozione romanistica si basava sull’impossibilità di dominare economicamente e di manipolare tecnologicamente le res omnium communes: condizione  superata dal capitalismo con le enclosures − le recinzioni che, dal Seicento all’Ottocento, hanno privatizzato i beni naturali, e, negli ultimi decenni, quelli immateriali.
Prendiamo il caso dell’acqua. Fino all’Ottocento essa era accessibile a tutti, nel senso che ognuno poteva andare alle sorgenti, o scavare un pozzo o andare alla pubblica fontana per rifornirsene. Divenne però merce vendibile quando la distribuzione raggiunse le singole case e furono imprese private a provvedere per l’allaccio alla rete: chi aveva denaro usufruiva dell’acqua in casa, chi era povero andava alla pubblica fontana. Fu alla svolta dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento che, con il ‘socialismo municipale’ (il water-and-gas-socialism), le istituzioni soprattutto locali provvidero alla distribuzione universale di acqua (ed energia). Furono lotte concluse da compromessi sociali con la borghesia industriale a consentire questo esito, reso possibile dall’uso della fiscalità generale. Quello che era prima un bene comune, divenuto poi privato, si trasformò in bene ‘pubblico’ in virtù del fatto che le reti furono trasformate in ‘monopolio naturale’ e l’acqua acquisì lo status di servizio pubblico. Questa trasformazione si riflette nel Codice civile del 1942, che all’articolo 822 stabilisce: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare,la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale. Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico […]». L’articolo 822 è nel Libro terzo che, si noti, disciplina la proprietà. I beni comuni, che, pur appropriabili parzialmente, il diritto romano poneva fuori dalle cose commerciabili, sono divenute proprietà nel loro complesso dello Stato, la cui gestione si vuole privatizzare.
Non il solo diritto ha preso atto dell’evolversi delle condizioni di possibile appropriazione privata e di commercializzazione delle res omnium communes, anche correnti del pensiero economico hanno dovuto fare i conti con la specialità di questi beni. Samuelson e Musgrave hanno messo in risalto le loro caratteristiche di non-esclusività e di non-rivalità, definendoli ‘beni pubblici’ che pertanto devono essere prodotti e distribuiti al di fuori del mercato. Infatti i beni pubblici sono i più evidenti casi di fallimento della ‘mano invisibile del mercato’, a cui la ‘mano visibile’ dello Stato deve porre rimedio. 
Elinor Ostrom parte proprio da Samuelson e Musgrave per definire le ‘common-pool resources’, le ‘risorse comuni’, mettendo però in luce piuttosto la non-escludibilità che la non-rivalità poiché a causa delle finitezza della risorsa il consumo di una persona sottrae parti consumabili da un’altra. Per una soddisfacente concettualizzazione, neppure adottando gli strumenti analitici della Ostrom si ottengono solidi risultati, capaci di dar conto delle diverse caratteristiche dei beni comuni. Le sue ricerche hanno tuttavia aperto la via al superamento della tragedia dei commons avendo portato alla luce le pratiche comunitarie tutt’oggi in vigore, e spiegato che sono proprio il mercato e le privatizzazioni a causare la tragedia dei commons, cioè la loro distruzione dovuta a un consumo individuale non controllato socialmente.
La Ostrom adotta un modello esplicativo basato su un insieme di diritti di proprietà per la gestione delle risorse comuni: diritto di accesso, di prelievo, di gestione, di esclusione, di vendita di diritti5. Comunità di utenti possono così gestire in maniera sostenibile le risorse avendo come parametri i costi e l’efficacia della produzione dei servizi. Eppure il suo modello e le sue definizioni sembrano attagliarsi più ai beni di club (caratterizzati da accesso limitato e rivalità), che non  a quelli comuni. Se di rilievo sono le ricerche della Ostrom, esse non possono essere il punto di arrivo nel percorso di costruzione teorica dei commons.
4.
Per giungere a una soddisfacente definizione di ‘beni comuni’, è di grande aiuto un saggio di Mario Fiorentini: L’acqua da bene economico a ‘res communis omnium’ a bene collettivo. Pur non condividendo la sua proposta finale di vedere nei ‘beni comuni’ i connotati  di ‘beni collettivi’, particolarmente chiare e per me convincenti rimangono le sue argomentazioni per cercare la fondazione della categoria dei ‘beni comuni’ al di fuori della tradizione romanistica e di quella economicista.
Due sono i passi che ci interessano. Il primo è relativo all’idea: «di qualificare l’acqua come res communis omnium [...] Ma questa configurazione non è adeguata al risultato che si vuol realizzare. Il motivo principale riguarda la disciplina che i giuristi romani avevano tracciato per questa categoria di cose: […] nella loro ottica, esse erano per loro natura occupabili ad esclusione degli altri possibili utenti, purché a questi ultimi fosse assicurata un’uguale opportunità di sfruttare altre porzioni della stessa risorsa (uno spazio di lido non occupato per attraccare o da edificare, un braccio di mare non edificato per pescare o per navigare, una quota d’acqua sufficiente all’irrigazione del proprio fondo). Ciò significa che le res communes omnium potevano essere sfruttate appropriandosene: che non è precisamente ciò che oggi si vuole quando si parla di ‘beni comuni’. Infatti la categoria aveva come sua destinazione non l’uso promiscuo di tutti gli utenti, ma un accesso esclusivo che sottraeva la porzione occupata del bene agli usi comuni: salva, come ho più volte rilevato, la facoltà degli altri possibili utenti di impedire la totale occupazione del bene stesso, che impedisse agli altri di usarne altre porzioni». Come si vede Fiorentini riprende, rendendo più incisivi, i rilievi  di Grossi prima richiamati.
Il secondo passo: «La stessa qualificazione dell’acqua come ‘bene’ solleva perples­sità. La civilistica definisce tradizionalmente ‘bene’ qualsiasi entità naturale (cosa) che possa ‘formare oggetto di diritti’ (art. 810 C.C.), e quindi suscettibile di valutazione economico-giuridica. Bene è dunque tutto ciò che l’ordinamento ritiene passibile di rapporti giuridici. Per di più, l’art. 814 qualifica ‘beni mobili le energie naturali che hanno valore economico’: quindi anche l’acqua può essere definita bene mobile. Definire l’acqua un bene, secondo l’ottica puramente economica, significa attribuirle il valore di cosa suscettibile di appropriazione privata, cioè di oggetto passibile di valutazione di mercato. È dunque la nozione di ‘bene’, intesa secondo questa particolare rappre­sentazione, a non essere adatta a descrivere una cosa senza la quale (al pari dell’aria, e a differenza di tutte le altre cose esistenti in natura) la stessa vita è impossibile. Forse sarebbe auspicabile un’estensione della stessa nozione di bene, che tenesse conto delle aperture più moderne anche ad aspetti della realtà non passibili di immediata valutazione patrimoniale (penso ad esempio al ‘bene ambiente’), e che quindi riuscisse a contenere in sé anche questi aspetti indifferenti allo sfruttamento economico privato»6
Per cogliere questi aspetti dei beni comuni, Fiorentini propone di definirli ‘beni collettivi’, che a me pare includere nel loro concetto molteplici connotazioni economiche, come si può verificare nei manuali di economia del  benessere. La prospettiva che tiene conto dell’accesso non esclusivo ai beni (naturali), della loro scarsità, della non commerciabilità e dell’esigenza di una loro gestione democratica è quella che concettualizza i beni comuni  come ‘beni fondamentali a titolarità e tutela diffuse funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali’.Questa prospettiva è stata aperta dalla Commissione Rodotà (istituita nel giugno 2007), che è riuscita a differenziare i beni comuni dalle ‘cose private’ e ‘dalle ‘cose pubbliche’.
Antonio Massarutto, convinto assertore delle soluzioni di mercato, sostiene che «l’acqua è sia un diritto sia un bene economico», e che per il mercato e per i privati si pone solo un problema  distributivo nei confronti dei poveri, da risolvere con l’intervento dello Stato7. Ai privati la gestione del bene economico con garanzia per legge dei profitti, allo Stato il compito di sostenere i costi relativi al diritto di accesso all’acqua dei poveri. L’acqua una volta è ‘bene economico’ e  un’altra volta ‘diritto’, aspetti secondo questa teoria gestibili separatamente, mentre  l’acqua è un ‘bene funzionale ai diritti universali delle persona’, e per questo la si può connotare come ‘bene fondamentale’.
La connessione tra beni comuni e diritti fondamentali evita di cadere in una visione comunitaristica, perché tiene al centro la persona i cui diritti non sono disponibili alle leggi delle maggioranze e a quelle del mercato.  Si è per questa via giunti ad elaborare «una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano strictu sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa[…] beni che [al contempo] soffrono di una situazione di scarsità e di depauperamento[…] La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità»8.
Essendo i beni comuni a ‘titolarità diffusa’, richiedono sia organismi di gestione diretta da parte dei cittadini, a partire dal livello locale, sia la creazione di raccordi tra i vari livelli istituzionali. Luciano Gallino, a proposito del movimento NO TAV, si è chiesto: chi rappresenta l’interesse generale, il popolo NO TAV o le istituzioni  rappresentative? Con ciò ha formulato due questioni: in ‘quali sedi’ e con ‘quali procedure’ si costruisce l’interesse generale. Alessandra Algostino ha cercato di fornire alcune  risposte. Rispetto alle sedi, argomenta che i movimenti sono luoghi di espressione della sovranità popolare costituendo un esercizio di diritti democratici da parte dell’ordinary people. La rappresentanza dell’interesse generale non è naturaliter in capo alle istituzioni rappresentative, dato che per essere ‘generale’ gli interessi e le opzioni della pluralità dei cittadini devono permanentemente entrare nel processo deliberativo e decisionale. Non si può decidere contro i cittadini riguardo a interessi che direttamente li toccano9.
Rispetto alle procedure, si può rilevare che la ‘democrazia territoriale’ rende più efficace la democrazia rappresentativa, perché non attribuisce alle istituzioni politiche il monopolio della decisione pubblica, creando costantemente momenti di verifica grazie all’instaurarsi di una relazione tra eletti e rappresentati. Tramite i metodi della governance, i soggetti privati (forti) sono chiamati a prendere parte ai procedimenti di formazione delle decisioni che li concernono. Questi metodi vanno rovesciati: sono i cittadini coinvolti dalle scelte − quod omnes tangit ab omnibus approbari debet − a doversi confrontare con le autorità pubbliche e le istituzioni rappresentative in un processo che va dallo scambio di informazioni e di opinioni fino alle decisioni finali: un circuito virtuoso per sottrarre i rappresentanti alla loro ‘torre d’avorio’, per evitare la loro sottomissione alle oligarchie economiche, e per ‘saggiare’, a loro volta, il carattere di generalità delle rivendicazioni territoriali. La ‘democrazia locale’ non può pretendere di essere l’incarnazione del bene comune, ma, nella relazione con le diverse istituzioni politiche, con gli altri organismi territoriali e nel confronto con l’opinione pubblica, cerca la via per far emergere l’interesse generale. Questo, che oggi si presume essere connaturato alle istituzioni rappresentative, viene a configurarsi come il risultato della democrazia comunicativa entro spazi pubblici dove si stabiliscono relazioni orizzontali (con altri organismi territoriali) e verticali (con i rappresentanti delle istituzioni rappresentative e le autorità amministrative). Nessuna istituzione, nessun luogo a livello territoriale, nessuna rappresentanza politica o di movimento può rivendicare il ruolo esclusivo di ‘detentore del bene comune’, dell’interesse generale, che si costituisce nella loro reciproca relazione, tramite procedure deliberative e decisionali.

5.
In Italia contro la trasformazione dell’acqua in merce si sono compiuti notevoli progressi, anche a livello istituzionale, con la vittoria dei due referendum relativi alle forme della sua gestione e al tasso di remunerazione del capitale investito. Si vanno ora intraprendendo percorsi locali, nazionali ed europei per continuare la mobilitazione per arrivare a una gestione dell’acqua come bene comune. Nel movimento dell’acqua, come negli altri peraltro, si è andato creando un originale intreccio tra saperi esperti e saperi esperenziali, tra conoscenza e pratiche sociali, infatti giuristi come Azzariti, Ferrara, Lucarelli, Mattei e Rodotà hanno contribuito alla formulazione dei quesiti referendari e sono presenti entro i movimenti dell’acqua. A Napoli, in seguito alle elezioni amministrative di giugno, è stato istituito l’Assessorato ai Beni comuni, affidato ad Alberto Lucarelli. È un avvenimento di assoluto rilievo che ha già prodotto l’impegno del Comune a farsi carico di un’iniziativa legislativa europea per uno Statuto dei beni comuni. Questo impegno è basato su argomentazioni che, fino a ieri si potevano leggere solo in libri e articoli oppure ascoltare nelle assemblee di movimento, li troviamo oggi in una delibera. Il Comune di Napoli si assume il compito di «dare impulso, anche nella quotidiana attività del Comune, allo sviluppo di una nuova forma di diritto pubblico, che tuteli e valorizzi quei beni funzionali alla effettiva tutela dei diritti fondamentali, come beni di appartenenza collettiva e sociale quali sono l'acqua, il lavoro, i servizi pubblici, le scuole, gli asili, le università, il patrimonio culturale e naturale, il territorio, le aree verdi, le spiagge, e tutti quei beni e servizi che appartengono alla comunità dei cittadini e dei quali, dunque, alla comunità non può essere sottratto né il godimento, né la possibilità di partecipare al loro governo e alla loro gestione». Il primo atto, poi, dell’assessore Lucarelli ha avuto per oggetto la trasformazione  dell’ARIN SpA, che gestisce le risorse idriche di Napoli, in un soggetto di diritto pubblico non più sottoposto alle logiche di mercato.
Nelle assise di ‘Genova 2011’ si è discusso e proposto un’altra iniziativa legislativa europea per modificare la direttiva 2000/60 così da cancellare il riferimento all’acqua come merce e il full recovery cost, e per dare attuazione alla gestione democratica e partecipata dell’acqua.

 6.
Pur non essendo il lavoro un bene comune bensì, declinato secondo l’art. 4 della Costituzione, un diritto sociale per ora riservato a tutti i cittadini, tra il lavoro e i beni comuni si può e si deve costruire una connessione per strutturare un nuovo paradigma per la gestione delle risorse naturali e dei processi produttivi: lavoro e beni comuni possono divenire i nuovi indicatori del cosa, come, quanto e per chi produrre. Innanzitutto occorre, come nei referendum di giugno, tenere insieme la questione dell’acqua e quella dell’energia. M. Agostinelli, R. Meregalli e P. Tronconi spiegano che l’uso di nuove fonti di energie, per le loro caratteristiche intrinseche, richiede rapporti sociali e modi di produzione alternativi al capitalismo10. Risuonano le parole di Marx quando scrisse: «Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro rapporto di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita,  cambiano i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale»11. Le affermazioni di Marx hanno un’enfasi deterministica, anche se colgono il nesso tra forme di società e fonti di energia, le quali condizionano i modi d’essere delle stesse strutture politico-istituzionali. Il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili e al ‘solare’ richiede un cambiamento dei rapporti sociali e degli assetti istituzionali. Il capitalismo globalizzato non è in grado, guidato dal profitto come misura dell’efficienza economica, di assumere come parametri i vincoli che discendono dal ricambio organico società umana-natura12. Il capitalismo è la più distruttiva, anche se la più dinamica, organizzazione sociale della produzione della storia. Il suo prometeismo lo spinge a credere che i processi produttivi possano, tramite l’innovazione tecnologica, liberarsi dai vincoli naturali e dalla limitatezza delle risorse consumandole senza curarsi della loro riproducibilità e senza porre freno al loro depauperamento ed esaurimento fisici. Ha scritto Giorgio Nebbia che, invece, solo capendo come la  materia e l’energia  circolano dai corpi naturali ai processi di produzione e consumo, e poi come e dove la materia ritorna nei corpi naturali (come scorie e rifiuti), si può comprendere come funziona un’economia. Il capitalismo con i suoi parametri della concorrenza e del profitto, che impongono la valorizzazione del capitale chiamata oggi ‘catena del valore’, è in grado, con i meccanismi dei mercati finanziari (sia pure a costo di continue crisi), di fronteggiare i rischi attribuendo a questi anche un prezzo, non è  di certo in grado di fare i conti con l’incertezza che per definizione caratterizza il futuro e con il limite delle risorse, ambedue non suscettibili di valutazione monetaria.
I beni comuni e il lavoro sono gli elementi basilari della riproduzione materiale e sociale della vita, sono per questo le leve per andare oltre l’economia monetaria della produzione – come Keynes definì il capitalismo. La sostenibilità ambientale e l’equità sociale possono divenire i nuovi indicatori per l’uso delle risorse alternativo a quello capitalistico.
La sostenibilità ambientale. L’energia, l’acqua, l’aria, la terra sono le risorse materiali per la riconversione ecologica dell’economia, e i lavoratori sono il riferimento sociale se non esclusivo certamente necessario di questa riconversione: sempre e comunque serve il lavoro umano per  organizzare e gestire l’uso delle risorse. L’alleanza tra lavoratori e movimenti per i beni comuni è necessaria per definire il cosa e per chi produrre: «riqualificare produzioni e consumi in un contesto di allargamento della domanda mondiale di beni prima che di merci, di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni povere». E per definire come e quanto produrre: produzioni e consumi a minor contenuto di materie prime e di energia «a basso impatto ambientale, che privilegi le reti corte e tenga conto dei limiti fisici delle risorse disponibili e dei vantaggi della rinnovabilità»13.
L’equità sociale. Si può orientare il diverso uso delle risorse in relazione ai fini sociali, traducendoli − tramite i concetti di ‘funzionamenti’ e ‘capacità’ di  A. Sen − in veri e propri indicatori, sostitutivi di quelli monetari. Le risorse vanno impiegate assumendo come vincolo generale  la preservazione della natura e ponendo come finalità la garanzia e la promozione del well-being delle persone. Questo ha come componenti necessarie:
- lo standard materiale di esistenza;
- la salute;
- l’educazione;
- le attività, compreso il lavoro;
- la ‘voce’ nei processi politici, garantita dai diritti costituzionali, dal rule of law, dalla partecipazione e
  dal  pluralismo, in sintesi dalla democrazia costituzionale;
- le relazioni sociali;
- la sicurezza fisica ed economica.
Il fine dell’economia e delle istituzioni politico-sociali sono le ‘capacità’ delle  persone, intese come insieme di opportunità e, specificamente, come libertà di scegliere in questo insieme, in modo che ognuno/a possa condurre la vita a cui ‘si dà individualmente valore’. Così l’insieme delle capacità sono funzionali alla realizzazione dei fini propri di ciascuna persona, ciò che implica la diversità negli stili di vita, questa stessa fonte di arricchimento dell’insieme delle opportunità. Non ho tratto queste proposizioni da testi di femministe o di noglobal, sono nel rapporto di Stiglitz, Sen e Fitoussi sugli indicatori dello sviluppo umano14. Queste finalità non sono buoni propositi, sono le stesse precettivamente poste dalle costituzioni del Secondo dopoguerra, e compiutamente espresse nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È la ‘rivoluzione da fare’, di cui parlò Piero Calamandrei alla Costituente il 4 marzo del 1947.
Franco Russo


Note

1. Luigi Ferrajoli, Per una carta dei beni fondamentali, lezione, venerdì 17 aprile 2009 (testo 
   provvisorio),  si veda anche Id., Principia iuris, vol. 1, Roma-Bari 2007, pp.776-81; l’estensione al
   lavoro della categoria ‘bene personalissimo’ è resa possibile dalla  definizione di Marx: «Per forza-
   lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e  intellettuali che esistono nella corporeità; ossia 
   nella personalità vivente d’un uomo» (Il Capitale, vol. I, Roma 19645,  p. 200); per le molteplici
   accezioni di ‘lavoro’ nella Costituzione italiana, si  veda G.  Amoroso – V. Di Cerbo – A. Maresca,
   Il  diritto del lavoro,Vol. I, Milano 20072, pp. 3-4, 46-53, 603-608;
2. Luigi Ferrajoli, Principia iuris, vol. 2, Roma-Bari, 2007, pp.239-42;
3. Hanna Pitkin, Wittgenstein and Justice, Berkeley-Los Angeles-Londra, 19932, p. XVIII e p. 4;
4. Giuseppe Grosso, Corso di diritto romano. Le cose, ristampato in Rivista di diritto romano, I, 2001,
     pp.32-33;
5. Elinor Ostrom, in Common Goods, ed. by Adrienne Héritier, Lanham-Boulder-New York-Oxford,
    2002, p. 41;
6. in Analisi Giuridica dell’Economia, 1/2010, pp. 67-68;
7. Antonio Massarutto, Privati dell’acqua?, Bologna 2011, p. 37;
8. Relazione della Commissione, riportata in Atto Senato n. 2031, Legislatura. XVI;
9. Alessandra Algostino, Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento NO TAV,
    Napoli 2011, pp. 111 e 114; sul tema della formazione dell’interesse generale si può leggere: 
   Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti,  Roma-Bari, 2010, cap. 7 (in particolare pp.397-404); Aurelio S.  
   Pezonaga Quella  potente  indisponibilità alla rappresentanza, in il manifesto, 9 agosto 2011, p.
   11; Pierre Rosanvallon, Penser le populisme, in Le Monde, 22 luglio 2011, p. 16;
10. M. Agostinelli, R. Meregalli e P. Tronconi, Cercare il Sole, Roma 2011;
11. Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1949, p. 89;
12  Karl Marx, Il Capitale, cit., pp.211-12
13. Cercare il Sole, cit., pp. 48-50;
14. AA.VV., Mismeasuring our lives, New York, 2010, pp. 15-18.