Terre demaniali: Bologna cuore delle campagne nazionali per la loto tutela
Circa un anno fa veniva approvata la legge di stabilità 2012 (ex legge finanziaria), che norma e definisce, secondo l’art.7, la dismissione dei terreni agricoli demaniali. Quest’articolo, poi rivisto e modificato nell’art.66 del DDL 24 Gennaio 2012, n°1, pone le basi per la vendita di terreni demaniali, con lo scopo di coprire una parte del debito pubblico.
In sintesi l’applicazione di questo decreto è spendibile su tutto il territorio nazionale, laddove i terreni agricoli non siano “utilizzabili per altre finalità istituzionali”, art.66, 1. Rientrano in questa dicitura differenti beni paesaggistici e produttivi, quali le aree protette (per cui “l’agenzia del Demanio acquisisce preventivamente l’assenso alla vendita da parte degli enti gestori delle medesime aree” art.66,6), e le aree che, “su richiesta dei soggetti interessatic, possono essere vendute da comuni, province, regioni, essendo proprietà di queste ultime.
L’estensione di questi territori non è di facile censimento, anche in virtù di precedenti decreti legislativi che ne hanno modificato l’entità, ma secondo la Coldiretti si tratta al momento di circa 338 mila ettari di terreni agricoli coltivabili, per un valore di circa 6,2 miliardi di euro. Sono, inoltre, zone agricole demaniali anche i territori caratterizzati dagli usi civici. Il diritto d’uso civico è vincolato all’utilizzo collettivo e indiviso di un dato patrimonio ambientale, affonda le radici nella storia di produzione agricola e di allevamento locale dei comuni rurali e montani.
La proprietà e la gestione collettiva della terra rimane oggi un diritto virtuale, radicato nella memoria di territori specifici, che numerose realtà in Italia stanno cercando di rivitalizzare. Questi sono i territori che fra solo vent’anni potranno, sempre secondo l’art.66, 8, ricevere una differente destinazione d’uso rispetto quella agricola attuale. Parallelamente al censimento da parte delle amministrazioni locali delle aree vendibili per sottoporle ad asta o a bandi di cessione diretta, sono nati in tutto il territorio nazionale gruppi locali che si occupano della registrazione dei territori demaniali gravati da una storia di uso civico. Lo scopo è quello di avere una considerazione reale dell’estensione di questi terreni, di evitare speculazioni e poter controllare, o bloccare, le vendite.
La proprietà e la gestione collettiva della terra rimane oggi un diritto virtuale, radicato nella memoria di territori specifici, che numerose realtà in Italia stanno cercando di rivitalizzare. Questi sono i territori che fra solo vent’anni potranno, sempre secondo l’art.66, 8, ricevere una differente destinazione d’uso rispetto quella agricola attuale. Parallelamente al censimento da parte delle amministrazioni locali delle aree vendibili per sottoporle ad asta o a bandi di cessione diretta, sono nati in tutto il territorio nazionale gruppi locali che si occupano della registrazione dei territori demaniali gravati da una storia di uso civico. Lo scopo è quello di avere una considerazione reale dell’estensione di questi terreni, di evitare speculazioni e poter controllare, o bloccare, le vendite.
Le risposte attivate da questo decreto sono molteplici e destinate ad aumentare, visto la cadenza annuale (sempre entro il 30 Giungo) dell’alienazione dei terreni. All’interno di questo dibattito, CampiAperti, associazione bolognese di produttori e consumatori nata da circa una decina d’anni che trova nei settimanali mercati autogestiti del biologico un mezzo di sensibilizzazione importante, ha incentivato riflessioni, sollevato dubbi e proposto alternative, cominciate anzitutto sul territorio di Bologna e confluite in campagne di diffusione con risonanza nazionale.
La campagna “Terra bene comune”, ad esempio, sostiene la necessità di gestione di questi territori, in quanto bene collettivo, da parte delle comunità che vi sono insediate e quindi l’inalienabilità, senza consenso della popolazione tutta, degli stessi. Attraverso il blocco delle vendite e la tutela del patrimonio collettivo si alimentano le potenzialità insite nel ripensamento delle finalità e delle modalità di sfruttamento e di gestione dei territori specifici sulla base delle esigenze delle popolazioni locali.
Con la richiesta di svincolare quelli dalla possibilità di speculazioni, “Terra bene comune” nasce in seno alla più ampia campagna nazionale “Genuino Clandestino”, volta alla difesa dei piccoli produttori agricoli locali e alla denuncia delle norme che li penalizzano, ad incentivare le politiche di filiera corta che garantiscano una relazione diretta tra i produttori e i consumatori, in una relazione vincolata reciprocamente dalla responsabilizzazione riguardo il mercato alimentare e il futuro della produzione agricola sostenibile italiana.
Una terza iniziativa sta nascendo in questi mesi sul territorio comunale, in relazione alle precedenti e si tratta del progetto “Accesso alla Terra”. Per quanto non si occupi esclusivamente della vendita delle terre demaniali, la fondazione con proprietà collettiva che si sta creando, in collaborazione con MAG6 (Mutua Auto Gestione) di Reggio Emilia, vuole connettere la necessità di rivitalizzare le terre agricole abbandonate e il desiderio dei “nuovi contadini” di poter praticare quest’attività. Proponendo di raccogliere i sostegni finanziari di chi desidera partecipare all’iniziativa per l’acquisto di fondi agricoli da ridistribuire agli aspiranti piccoli produttori, il progetto cerca di superare il gap esistente fra l’esistenza di una fascia di popolazione che desidera tornare alla produzione agricola e la difficoltà nel reperire i finanziamenti per poter intraprendere una tale attività.
La catena che lega produttore e consumatore, in questa maniera è vincolata dalla proprietà collettiva e da un “controllo partecipato” che garantisce le modalità di produzione. Contrapponendosi alla politica di privatizzazione dei beni comuni, che rischia di disancorare negativamente la popolazione dalla memoria locale, queste campagne attivano positivamente delle riflessioni a riguardo della relazione tra popolazione, territorio e produzione agricola, diritto alla terra e necessità di presa in carico da parte della popolazione dell’ambiente, della socialità e della responsabilità nella cura che non possono venire delegate. L’approvazione dell’art.66 ha riaperto un dibattito mai sopito sulla gestione di ciò che è pubblico, privato e collettivo, su aree fino ad oggi per lo più tralasciate dall’interesse generale, un dibattito a cui è necessario dare spazio poiché tratta della trasmissibilità del nostro patrimonio sociale e ambientale.
fonte: Il Manifesto
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