mercoledì 23 gennaio 2013

Brasile. Fine della riforma agraria


Brasile. Fine della riforma agraria


Gran parte delle migliori terre coltivabili del Brasile serve a produrre soia, canna da zucchero e mais transgenico. Il governo progressista di Dilma Rousseff promuove il trionfo dell’agricoltura destinata al business e all’export. Cancellati cinquant’anni di lotte contadine per la riforma agraria e la sovranità alimentare. Il Partido dos Trabalhadores getta alle ortiche anche la sua lunga storia di lotta al latifondo. Nel territorio della più grande potenza del Sudamerica viene consumato un quinto dei prodotti agricoli tossici del mondo.
Raúl Zibechi*
La riforma agraria, come politica di sviluppo, è stata abbandonata. Al suo posto c’è l’agro-business. Dopo mezzo secolo, si conclude un lungo ciclo di lotte per la re-distribuzione della terra dal latifondo improduttivo ai contadini senza terra. È stato un cardine per tutte le politiche di sinistra nel continente. Per ironia della sorte, la rottura delle politiche di distribuzione della terra avviene sotto il governo del Partido dos Trabalhadores (Pt) che, in altri tempi, è stato il più attivo sostenitore di una riforma agraria radicale.
Il governo di Dilma Rousseff sta promuovendo cambiamenti profondi nell’Instituto nacional de colonização e reforma agrária (Incra) al fine di decentrarlo e prendersi cura dei contadini che già possiedono terreni per quel che riguarda l’abitazione, l’energia elettrica e l’assistenza alla produzione. Si tratta, spiega un resoconto del quotidiano O Estado de São Paulo, della “modernizzazione amministrativa dell’Incra, legata a un cambiamento progressivo del profilo della riforma agraria” che si riassume nel sostenere la produzione “integrando i piccoli agricoltori nell’agro-business” (O Estado de São Paulo, 5 gennaio 2013).
L’Incra perde diverse funzioni, tra le quali l’autorità per selezionare le famiglie beneficiarie. Buona parte dei suoi compiti saranno assunti da municipi e ministeri (come quello dello sviluppo agricolo e quello dello sviluppo sociale e delle città). L’istituto si concentrerà su quello che già ha cominciato a considerare prioritario: le risorse per espropri di terra sono infatti calate dell’11,5 per cento tra il 2011 e il 2012, mentre il bilancio preventivo per l’assistenza tecnica è cresciuto del 123 per cento.
Il quotidiano conservatore paulista si congratula con la decisione governativa: “L’idea è prendersi cura meglio degli agricoltori insediati ufficialmente invece di investire nella creazione di vere e proprie favelas rurali, che è poi quello che sono diventati molti insediamenti creati per dare soddisfazione ai cosiddetti ‘movimenti sociali’”.
Che la destra esprima elogi non sorprende. In fondo, dall’inizio del governo Lula, proprio dieci anni fa, l’agro-business è stata un’opzione categorica del Pt, con la tesi secondo cui le esportazioni di commodities offrono un ampio surplus commerciale che produce benefici per il Paese riducendo la sua vulnerabilità esterna. La “re-primatizzazione” (un neologismo che indica il recupero dell’importanza dei settori primari dell’economia, ndt) del modello di esportazione e il calo delle esportazioni industriali non sono riusciti a modificare la volontà politica delle autorità intenzionate a favorire l’agro-business come locomotiva dell’economia e a trasformare la riforma agraria in una politica assistenziale.
Il continuo consolidamento di questa politica mette nei guai i movimenti contadini e, soprattutto, il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (Mst). João Pedro Stedile, del Coordinamento nazionale, ha ribadito che ci sono 150 mila famiglie accampate che stanno lottando per la terra e 4 milioni di famiglie povere che nei campi stanno ricevendo il programma Bolsa Familia per evitare la fame (Carta Capital, 7 dicembre 2012). L’85 per cento delle migliori terre del paese vengono utilizzate per la coltivazione di soia, mais transgenico e canna da zucchero; il 10 per cento dei proprietari rurali con oltre 500 ettari di terra controlla l’85 per cento della produzione agricola e zootecnica destinata all’esportazione senza alcun valore aggiunto.
Il peggio è che il Brasile conta il 5 per cento della produzione agricola mondiale ma consuma il 20 per cento dei prodotti agricoli tossici del mondo. Secondo l’Istituto nazionale dei tumori, ogni anno 400 mila persone contraggono la malattia, la maggior parte di essi si ammala a causa del consumo di alimenti contaminati da veleni agricoli. Intanto, il rapporto annuale della Commissione pastorale della terra (Cpt) rileva che il numero di famiglie insediate nel 2012 è il più basso dal 1994.
La Cpt stima che “l’agro-business si è consolidato nelle campagne come modello preferenziale del governo”, denuncia l’abbandono dei popoli tradizionali, tra i quali spiccano tremila comunità quilombolas (afrodiscendenti), sulle quali si è concentrata la violenza dell’agro-business al fine di sottrarre loro la terra. La mappa della violenza cresce inoltre con le grandi opere delle infrastrutture (dighe, porti) e con i progetti minerari a cielo aperto.
In agosto, a Brasilia si è tenuto l’Incontro unitario dei lavoratori e delle lavoratrici e dei popoli delle campagne, dell’acqua e dei boschi. Ha riunito 7 mila persone appartenenti a 33 movimenti rurali. Non servirà a far cambiare politica al governo, così come non lo fece Lula, malgrado la foto che lo ritraeva con il cappello con il simbolo del Mst. Anche Dilma Rousseff, nel Forum sociale mondiale realizzato nel 2012 a Porto Alegre, si era impegnata a insediare contadini senza terra nei nuovi progetti di irrigazione nel nordest, gli stessi che ora sta offrendo ai grandi imprenditori dell’export.
Le sue sono state parole che non si tradurranno in cambiamenti politici. Perché questo possa avvenire, sarebbe necessaria una nuova ondata di mobilitazioni e di movimenti come quella degli anni Settanta. Adesso invece le politiche sociali e la promozione sociale (limitata naturalmente) stanno disgregando i movimenti, ai quali, nel migliore dei casi, offrono briciole in forma di credito per la produzione e per le abitazioni. La Cpt ricorda nel suo rapporto che “lo Stato ha già preso posizione di fronte al contesto agricolo brasiliano” e che “viviamo un tempo in cui è necessario scegliere un nuovo modo di pensare e di vivere”.
È qui che, a mio parere, l’esperienza delle comunità zapatiste ha qualcosa da insegnarci. Non possiamo continuare a pensare che lo Stato possa essere garante dell’alimentazione, della casa, della salute, dell’educazione e di tutto ciò che serve ai ceti popolari per sopravvivere. Quella epoca è passata alla storia. È stata sepolta dal capitale quando ha deciso di liberarsi del welfare e della sovranità nazionale, considerati entrambi ostacoli alla sua accumulazione (del capitale, ndt), oggi accumulazione da guerra. I movimenti che continueranno a sperare che sia lo Stato a risolvere i problemi della vita dei suoi cittadini sono condannati a perdere il loro carattere anti-sistemico.

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