SIENA - Respinto il progetto presentato dalla giunta toscana e da Libera di affidare il bene all'azienda agricola regionale
All'asta la tenuta confiscata alla mafia
Cereali e ulivi, agriturismi e centri zootecnici: 713 ettari di Suvignano, a Monteroni d'Arbia
Al miglior offerente la tenuta della mafia. Dopo essere stata confiscata quasi venti anni fa all'immobiliarista di Cosa nostra, Vincenzo Piazza, viene messa in vendita la meravigliosa tenuta di 713 ettari di Suvignano a Monteroni d'Arbia, provincia di Siena. Seicento ettari coltivati a cereali, oliveti, cipressi, 3 centri zootecnici con 2000 ovini allevati, 350 cinte senesi, una villa, due agriturismi, fienili, riserva di caccia e persino una chiesa con la canonica. Tutto in vendita. A stabilirlo il decreto dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione dei beni sequestrati alla criminalità. Si parte da una base di 22 milioni. Respinto il progetto presentato dalla Regione Toscana che, insieme a provincia di Siena, comune di Monteroni ed all'associazione Libera, puntava ad acquisire il bene dal demanio per poi affidarlo in gestione alla azienda agricola regionale.L'obiettivo: dare impulso ad un'agricoltura improntante alla filiera corta ed alle energie rinnovabili, ed allo stesso tempo sviluppare attività di contrasto alla criminalità attraverso la realizzazione di una "scuola di legalità" e l'accoglienza per ragazzi disagiati e donne maltrattate. Progetto presentato al ministro Cancellieri lo scorso gennaio ma che evidentemente nel tempo delle larghe intese non sembra più trovare cittadinanza.
Bisogna fare cassa a qualsiasi costo. Arrabbiatissimi regione, provincia e comune, ancora increduli davanti ad una decisione che grida vendetta. «Lo Stato si fermi», dice don Ciotti fondatore di Libera che definisce «inopportuna la proposta di mettere in vendita un bene come la tenuta di Suvignano dopo anni di lavoro insieme a enti locali e reti dell'associazionismo impegnate a restituire alla collettività quel bene non solo in termini di valore economico ma culturale e sociale». Pericolosissimo il messaggio che si lancia in un momento di grave crisi per la nostra democrazia, in un paese in cui le ingiustizie prosperano di pari passo con i privilegi di un ceto politico lontano dai problemi, in costante crescita, della maggioranza dei cittadini. Oggi più che mai vale la pena ricordare come «dobbiamo considerare la lotta alla mafia un aspetto molto importante e decisivo, non a sé stante ma nel quadro della battaglia più generale per la difesa dello stato democratico». Parole non a caso utilizzate proprio da Pio La Torre per commentare la legge omonima 646 del 1982 che introdusse per la prima volta nel codice penale il delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso, il sequestro e la confisca dei beni alla criminalità organizzata, come strumento di affermazione e crescita della legalità e dell'impegno civile. È stato poi attraverso la proposta promossa da Libera nel 1995 e sostenuta da oltre un milione di cittadini che è stato possibile far approvare nel 1996 la legge 109 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Grazie infatti all'uso sociale dei beni immobili confiscati tantissime associazioni e cooperative hanno operato per restituire alla collettività i beni sottratti alle mafie. Per la destinazione e l'assegnazione dei beni confiscati la legislazione vigente stabilisce due opzioni: 1) rimanere nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico, di protezione civile e quando idoneo per altri usi governativi; 2) essere trasferite al patrimonio indisponibile degli enti territoriali per poi essere assegnate alle organizzazioni del privato sociale.
Emerge evidente dunque l'intenzione del legislatore di mettere i soggetti locali al centro dei percorsi di recupero e di assegnazione di nuove funzioni degli immobili. Le comunità locali e le realtà del sociale come soggetti attivi non solo nella restituzione dei beni ma nell'azione di contrasto alla mafie. Il principio del riutilizzo sociale dei beni confiscati è da intendersi quindi come volano per lo sviluppo locale allo scopo di favorire nuova occupazione, inclusione sociale, miglioramento della qualità della vita e partecipazione attiva. In questo senso la decisione assunta dall'Agenzia dello Stato rappresenta un vero e proprio colpo di mano contro le finalità della legge, rendendo addirittura possibile il riacquisto da parte dei mafiosi della stessa tenuta.
Ad oggi i beni immobili confiscati in Italia secondo il censimento del 2012 sono 11.238 ma circa 4000 non ancora assegnati all'Agenzia, di cui 1500 bloccati da ipoteche bancarie, mentre altri restano inagibili e da ristrutturare. Quanto di grave sta avvenendo in queste ore dimostra come il riutilizzo dei beni confiscati non possa restare materia simbolica o testimoniale ma investa la democrazia nel suo complesso. Se il governo desse ascolto alle proposte delle realtà sociali sarebbe possibile dar vita a reti nazionali di strutture per il turismo sociale presso i beni confiscati, a progetti di housing sociale, a botteghe dei mestieri a vocazione artigianale per la formazione, a incubatori di impresa. Per farlo ci vogliono maggiore investimenti, professionalità e innovazione anche in termini culturali, per far diventare i beni confiscati vere e proprie risorse economiche e culturali.
Bisogna fare cassa a qualsiasi costo. Arrabbiatissimi regione, provincia e comune, ancora increduli davanti ad una decisione che grida vendetta. «Lo Stato si fermi», dice don Ciotti fondatore di Libera che definisce «inopportuna la proposta di mettere in vendita un bene come la tenuta di Suvignano dopo anni di lavoro insieme a enti locali e reti dell'associazionismo impegnate a restituire alla collettività quel bene non solo in termini di valore economico ma culturale e sociale». Pericolosissimo il messaggio che si lancia in un momento di grave crisi per la nostra democrazia, in un paese in cui le ingiustizie prosperano di pari passo con i privilegi di un ceto politico lontano dai problemi, in costante crescita, della maggioranza dei cittadini. Oggi più che mai vale la pena ricordare come «dobbiamo considerare la lotta alla mafia un aspetto molto importante e decisivo, non a sé stante ma nel quadro della battaglia più generale per la difesa dello stato democratico». Parole non a caso utilizzate proprio da Pio La Torre per commentare la legge omonima 646 del 1982 che introdusse per la prima volta nel codice penale il delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso, il sequestro e la confisca dei beni alla criminalità organizzata, come strumento di affermazione e crescita della legalità e dell'impegno civile. È stato poi attraverso la proposta promossa da Libera nel 1995 e sostenuta da oltre un milione di cittadini che è stato possibile far approvare nel 1996 la legge 109 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Grazie infatti all'uso sociale dei beni immobili confiscati tantissime associazioni e cooperative hanno operato per restituire alla collettività i beni sottratti alle mafie. Per la destinazione e l'assegnazione dei beni confiscati la legislazione vigente stabilisce due opzioni: 1) rimanere nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico, di protezione civile e quando idoneo per altri usi governativi; 2) essere trasferite al patrimonio indisponibile degli enti territoriali per poi essere assegnate alle organizzazioni del privato sociale.
Emerge evidente dunque l'intenzione del legislatore di mettere i soggetti locali al centro dei percorsi di recupero e di assegnazione di nuove funzioni degli immobili. Le comunità locali e le realtà del sociale come soggetti attivi non solo nella restituzione dei beni ma nell'azione di contrasto alla mafie. Il principio del riutilizzo sociale dei beni confiscati è da intendersi quindi come volano per lo sviluppo locale allo scopo di favorire nuova occupazione, inclusione sociale, miglioramento della qualità della vita e partecipazione attiva. In questo senso la decisione assunta dall'Agenzia dello Stato rappresenta un vero e proprio colpo di mano contro le finalità della legge, rendendo addirittura possibile il riacquisto da parte dei mafiosi della stessa tenuta.
Ad oggi i beni immobili confiscati in Italia secondo il censimento del 2012 sono 11.238 ma circa 4000 non ancora assegnati all'Agenzia, di cui 1500 bloccati da ipoteche bancarie, mentre altri restano inagibili e da ristrutturare. Quanto di grave sta avvenendo in queste ore dimostra come il riutilizzo dei beni confiscati non possa restare materia simbolica o testimoniale ma investa la democrazia nel suo complesso. Se il governo desse ascolto alle proposte delle realtà sociali sarebbe possibile dar vita a reti nazionali di strutture per il turismo sociale presso i beni confiscati, a progetti di housing sociale, a botteghe dei mestieri a vocazione artigianale per la formazione, a incubatori di impresa. Per farlo ci vogliono maggiore investimenti, professionalità e innovazione anche in termini culturali, per far diventare i beni confiscati vere e proprie risorse economiche e culturali.
di Giuseppe De Marzo da Il Manifesto
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